Dora, sei giornalista pubblicista e consulente di comunicazione. Raccontaci la tua esperienza professionale.
Immaginate una giovane donna in una cabina telefonica davanti al Big Ben: quella ero io, mentre cercavo il coraggio di chiedere ai miei genitori di restare a Londra per cogliere un’opportunità. Ho scelto di restare, e da allora non ho più smesso di “scalpitare”. E’ stata la parola che ha accompagnato tutti i miei step nella mia vita.
Oggi sono giornalista pubblicista e consulente di comunicazione con oltre 20 anni di esperienza in ufficio stampa, media relations, formazione e strategie di comunicazione. Lavoro come libera professionista per aziende, enti pubblici e associazioni in Italia, e anche per realtà estere interessate al mercato italiano.
Ho formato centinaia di persone su temi come comunicazione efficace, personal branding e ufficio stampa. Dirigo corsi per l’Ordine dei Giornalisti, sono vicepresidente dell’Associazione della Stampa Emilia-Romagna e dirigente del CIG Inpgi. Ma soprattutto, continuo a crescere, spinta dalla curiosità, dalla passione per le relazioni autentiche e da una convinzione: ognuno può diventare l’imprenditore di sé stesso.
Qual è stato il momento in cui hai capito che volevi occuparti di giornalismo professionale?
Ho sempre visto i giornalisti come una categoria un po’ chiusa, quasi protetta, soprattutto fino a vent’anni fa.
Sono partita dalla comunicazione, ma quando ho avuto l’opportunità di entrare in redazione ho capito subito che quel mondo mi affascinava. La curiosità era tanta, e l’idea di raccontare storie vere mi entusiasmava. Ho imparato molto e per un periodo limitato della mia vita, finché mi sono ritrovata senza lavoro, perché l’editore ha cambiato idea.
Avevo commesso l’errore di affidarmi a un solo editore, che poi mi ha lasciata a piedi. È stata una lezione dura, ma importante: ho capito che dovevo essere più imprenditrice, trovare più committenti e non dipendere da una sola realtà.
Da lì è nata la mia evoluzione: unire l’esperienza nella comunicazione con quella giornalistica e specializzarmi nelle media relations, una strada che oggi trovo molto più gratificante.
Sei specializzata nel ‘Personal Branding’. Cosa ti ha spinto a sviluppare questo progetto e come si è evoluto negli anni?
Tutto è nato da una necessità personale. Avevo scelto di lavorare come libera professionista con più committenti e quindi dovevo anche farmi trovare. Costruire un’identità comunicativa chiara mi ha aiutato a essere riconoscibile.
Poi, entrando nel “backstage” del giornalismo attraverso l’attività sindacale con l’Associaizione della Stampa Emilia Romagna (Aser), ho notato quanto la nostra categoria fosse carente sotto il profilo comunicativo.
Così ho iniziato a diffondere la cultura del personal branding anche tra i colleghi: credo sia uno strumento utile per valorizzare le proprie competenze e affrontare il mercato con maggiore consapevolezza.
Il personal branding è un processo complesso. Quali sono le principali difficoltà per chi vuole approcciarsi a questo strumento?
La prima difficoltà è mentale.
In particolare, i giornalisti tendono a confondere il personal branding con la pubblicità – parola quasi scandalosa nel nostro ambiente.
Ma non si tratta di “vendere sé stessi”, bensì di comunicare con chiarezza chi siamo, cosa sappiamo fare e per chi possiamo essere utili.
Quali competenze ti sono risultate più utili nella gestione del tuo progetto professionale?
Sicuramente la conoscenza dei processi di comunicazione.
Saper costruire un messaggio coerente con la propria identità è stato fondamentale per rendermi riconoscibile, costruire relazioni solide e posizionarmi in modo chiaro.
Come libera professionista, riesci a gestire il rapporto tra indipendenza editoriale e sostenibilità economica?
Negli anni ho constatato che fare solo la giornalista non era sostenibile, almeno non alle condizioni offerte dal mercato.
Lavorare con le aziende è diverso: ti chiedono un servizio, tu fai un preventivo e si instaura un rapporto professionale alla pari, con limiti economici dignitosi.
Al contrario, come collaboratrice di una testata, spesso mi venivano offerti compensi molto bassi. Finché ci saranno colleghi disposti a scrivere per 8 euro a pezzo, gli editori si sentiranno autorizzati a proporli.
Io ho scelto di dire no e di imporre il mio prezzo, consapevole del valore del mio lavoro. Questo non significa che sia stato o è facile. Se sei un libero professionista devi lavorare molto anche per trovare nuovi clienti, non puoi adagiarti.
Oggi, quando si parla di comunicazione, si pensa soprattutto ai social network. Quanto servono per fare personal branding nella tua strategia editoriale e in che modo la tecnologia influenza le tue scelte narrative?
I social network sono fondamentali, ma vanno usati con strategia.
Non serve essere su tutti, ma scegliere quelli che si è in grado di gestire con continuità e cura poiché un profilo abbandonato comunica trascuratezza.
Io li utilizzo per raccontare ciò che faccio, per instaurare dialoghi e per posizionarmi. La tecnologia, se usata bene, può amplificare la portata della nostra voce e della nostra credibilità.
Al centro della riflessione sulla categoria dei giornalisti rimane la tutela dei precari e freelance. La mancanza di contratti stabilizzati e la frammentazione delle fonti di reddito mette in discussione la qualità del giornalismo stesso. Consigli per una svolta?
Il punto di partenza è non accettare più compensi da fame.
Bisogna anche iniziare a guardare oltre i tradizionali editori come Repubblica, Il Corriere o La Stampa. Esistono oggi anche realtà aziendali che decidono di creare contenuti giornalistici, dando vita a vere e proprie testate. In quel contesto, servono giornalisti veri.
È il cosiddetto Brand Journalism, una modalità dei nostri tempi per fare informazione, ma in un contesto diverso.
Il nostro settore ha bisogno di nuovi modelli di business, più sostenibili e più in linea con i bisogni dei lettori di oggi.
Cosa consiglieresti a un giovane giornalista che vuole intraprendere un percorso in ambito giornalistico?
Di studiare comunicazione in senso ampio, di specializzarsi in una nicchia in cui si senta a proprio agio e dove possa fare la differenza.
Di guardare anche alle aziende come nuovi potenziali editori, aiutandole a raccontarsi con professionalità.
E, soprattutto, di non accettare gli 8 euro a pezzo. Di non lasciarsi fagocitare dal lavoro. Perché il lavoro è importante, ma resta solo una parte della nostra vita